Camminavo, sfiorando la staccionata marcescente della povera e cadente dimora in cui vivevo e lavoravo il cuoio, dopo la morte dei miei genitori.
Osservavo quel legno marcio che lentamente cadeva a pezzi. Avrei voluto una vita diversa.
Ricchezze, vestiti, gioielli. Una casa sfarzosa, servitori, un giardino sconfinato con piante e fiori presi da ogni luogo della terra.
Finchè un giorno una vecchia dai vestiti laceri e neri bussò alla mia porta.
Vengo da molto lontano e ho sentito i tuoi lamenti ed i tuoi desideri. In sogno mi hanno guidato fino a questo uscio…
Incuriosita, intuii che poteva essere un’incantatrice. Piena di speranza la feci entrare.
La vecchia sapeva ogni cosa di me, dei miei affanni, della mia insoddisfazione.
Cosa sei disposta a dare, in cambio di ciò che vuoi? Un incanto per funzionare deve essere saziato con un lauto banchetto…cosa offri?
Oscura signora, altro non ho da offrire, se non la mia giovinezza.
E sia.
Sigillato il Patto, avvertì qualcosa che usciva da me.
Era chiaro e fresco, ed emanava dalle mie membra, lasciando il mio corpo in volute di vapore lucente.
Si condensò in un oggetto proprio davanti a me, e con le mani lo afferrai.
Era un giglio bianco e splendente.
Ecco.
Lo posai sul tavolo, davanti alla vecchia.
Chiusi gli occhi.
Li riaprii.
E mi ritrovai in un palazzo dorato, regina di un vasto e ricco regno.
Vestita di diamanti e circondata da una servitù pronta ad eseguire ogni mio ordine. Pronta ad assecondare ogni mio capriccio. Pronta a soddisfare ogni mio desiderio.
E così vissi.
E molti pretendenti arrivarono a me, inginocchiandosi.
Erano tutti bellissimi e giovani, ciascuno con ricchezze e molti possedimenti.
Li volevo tutti, eppure non mi bastarono.
Danzai con loro, per giorni e notti intere e sfrenate.
E poi, annoiata e sdegnosa, li rifiutai.
Uno dopo l’altro.
Volevo di più, volevo ancora.
Finché ogni cosa intorno a me si prosciugò.
Il regno si inaridì.
Le acque delle fonti diventarono putride, i giardini disseccarono.
Il popolo si disperse.
Rimasi sola.
Nel palazzo dorato e vuoto.
Vivendo del solo incantesimo, senza bisogno di nutrirmi di cibo.
Infine disseccò la mia anima da dentro, e con essa anche il mio corpo.
Camminavo sorreggendomi ad un bastone, tra le rovine di quello che avevo desiderato.
E dalle rovine emerse l’oscura signora, con in mano il giglio.
Bambina mia, tale è il potere e la forza di questo fiore che neanche immagini.
I miei occhi si velarono, ammirando il fulgore che emanava dal fiore.
Oscura signora, ho vissuto quella che era la mia illusione, ora non ho più niente da bramare. Sono pronta a morire.
La vecchia davanti a me sembrò oscillare, come l’immagine riflessa in uno specchio d’acqua.
E si tramutò in una Fata, dai capelli ondulati che fluttuavano eterei, e dalle bianche e lunghissime vesti.
C’è sempre un’altra via, mi disse lei con gli occhi.
Mi porse il giglio.
Allungai la mia mano avvizzita e rugosa verso le sue.
Piansi per quanto erano lisce e vellutate.
E quando toccai il giglio scoppiai in lacrime e le mie gambe cedettero.
Caddi a terra, in preda alle convulsioni.
Il mio corpo tremava senza controllo, in una danza sfrenata e senza fine.
Il cielo mi piombò addosso, bianco ed opprimente.
Potevo toccarlo, sentirne la consistenza. E l’odore. Sapeva di pulito.
Riaprì gli occhi, ero sotto le lenzuola.
Nel mio letto fatto di paglia, nella mia povera casetta.
Annusai l’odore familiare delle conce e delle pelli.
E piansi ridendo, di gioia e di gratitudine, illuminata dal bagliore del sole del mattino che filtrava dalla finestra.
E sul davanzale, davanti ai vetri attraversati da ragnatele di crepe, c’era qualcosa di nuovo.
Misi a fuoco lo sguardo e sorrisi.
Un delizioso vasetto di vetro soffiato, trasparente e limpido come l’acqua.
E nel vasetto, quasi a sorridermi a sua volta, vidi un bianco giglio.
Alessandro Fauno Spadotto
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